Mentre era in corso la seduta congiunta delle due Camere per certificare il risultato dell’elezione di Joe Biden come Presidente degli Stati Uniti d’America, centinaia di sostenitori di Trump assaltavano il Palazzo del Congresso a Washington D.C.
Trump, attraverso i suoi profili Social, invitava i suoi sostenitori a ritirarsi, ma allo stesso tempo mostrava loro vicinanza e riconoscenza per quanto fatto.
Twitter e Facebook decidono, dunque, di rimuovere i contenuti pubblicati da Trump e, successivamente, di bloccare i suoi account definitivamente.
Questa decisione, da alcuni criticata, da altri sostenuta, fa emergere numerose domande dal punto di vista sociale e giuridico.
La prima domanda a cui rispondere è senza dubbio: cosa è la censura?
Censurare significa sottoporre al controllo dell’autorità pubblica una manifestazione di pensiero giudicata contraria agli interessi dell’ordinamento, per impedirne la diffusione.
È un potere che, in uno stato democratico, può essere esercitato in via eccezionale – cioè soltanto in casi tassativamente previsti dalla legge o disposti dall’autorità giudiziaria – in quanto va a limitare uno dei diritti fondamentali dell’uomo: il diritto di poter liberamente manifestare il proprio pensiero.
Diritto che, in Italia è riconosciuto dall’art. 21 Costituzione.
Negli Stati Uniti – coinvolti nell’episodio citato – lo stesso diritto è riconosciuto dal primo emendamento della loro Costituzione, che non tollera alcuna interferenza dei poteri pubblici nell’esercizio della libertà di espressione e non prevede possibilità di limitazione con riguardo sia ai contenuti espressi sia alle modalità, allo strumento, con cui il pensiero viene manifestato.
Non bisogna confondere la censura con la possibilità di intervenire successivamente su una manifestazione di pensiero con cui venga posta in essere una condotta perseguibile, perché il diritto costituzionale di poter manifestare il proprio pensiero non deve prevalere su altri diritti dello stesso rango (si pensi ai casi di ingiuria o diffamazione).
In questi casi, infatti, il controllo sul contenuto della manifestazione di pensiero è successivo e non preventivo.
Quali sono gli elementi caratterizzanti la c.d. censura di internet?
Internet è ad oggi il più potente mezzo di diffusione del pensiero, in cui i contenuti viaggiano senza confini ed in modo virale.
Questa sua caratteristica lo rende anche una potente arma con cui è possibile condizionare, nel bene e nel male, l’opinione pubblica e destabilizzare un ordinamento.
Per questo motivo, in molti paesi del mondo, internet subisce censure e limitazioni, con conseguente controllo delle informazioni e della loro diffusione in rete.
Alcuni governi spengono e accendono internet in concomitanza con eventi particolari come le elezioni.
Alcuni stati hanno delle intranet. Altri dei veri e propri firewall, filtri di censura governativa che impediscono di accedere a siti, social network e contenuti “antigovernativi”.
Sono tutti esempi di “censura di internet” che si può definire come controllo o blocco sia della pubblicazione di contenuti su internet, sia direttamente della possibilità di accedervi.
Nel 2016 il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che le restrizioni di accesso a internet configurano violazione dei diritti umani.
Nel caso Trump, la censura è avvenuta per decisione diretta dei social Facebook e Twitter, piattaforme di privati e quotate in borsa.
Considerato il ruolo sociale delle piattaforme, è legittimo che un soggetto privato limiti un diritto fondamentale, sulla base di valutazioni complesse quali quelle relative al carattere istigativo dei contenuti?
La posizione di chi sostiene la legittimità del controllo dei contenuti da parte di soggetti privati muove dall’assunto che il divieto di censura nasca per limitare il controllo da parte delle autorità pubbliche, per evitare derive dittatoriali negli ordinamenti democratici.
I privati, dunque, non sarebbero tenuti a rispettare il divieto di censura, anzi avrebbero il diritto di decidere chi può dire cosa “in casa loro” (i.e. sulle loro piattaforme), proprio per proteggere la loro stessa libertà di parola. In parole più semplici, si tratterebbe di cancellare un contenuto divergente dal mio pensiero come espressione e difesa del mio pensiero stesso, delle mie emozioni, delle mie preferenze politiche.
Sul punto è interessante sapere che in Italia, per esempio, non è da ritenersi censura – e dunque non è vietato – il controllo di un direttore di giornale sui contenuti di un articolo che non ritenga conforme all’indirizzo politico della testata.
Quello che cambia tra una testata e le piattaforme social è sicuramente che l’orientamento politico dei giornali è sempre più o meno noto e che il lettore può scegliere la testata da leggere che sia più vicina alle sue preferenze personali.
Questo non avviene per i social, sia con riferimento alla notorietà dello schieramento politico sia perché vi è una mancanza di concorrenza tale per cui non ci sono luoghi alternativi in cui recarsi per leggere contenuti di differente ideologia.
Il problema, quindi, non è solo se Facebook o Twitter abbiano o meno diritto ad eliminare post non in linea con le loro “politiche”, ma che gli utenti non hanno possibilità di scegliere quale social frequentare con la stessa facilità con cui possono scegliere il periodico da leggere.
Inoltre è ormai risaputo che i social network utilizzano algoritmi per decidere quali contenuti amplificare o silenziare, quindi non solo l’utente non ha possibilità di scelta per mancanza di concorrenza, ma sullo stesso social network capita che possa avere difficoltà ad accedere a contenuti che l’algoritmo non ritiene possano interessargli (fenomeno noto come Filter Bubble).
Certamente , se i social media diventano più attivi a classificare algoritmicamente i contenuti che gli utenti caricano, e a moderare quelli indesiderati, allora stanno diventando sempre più simili a degli editori.
Da qui la necessità – se non di estendere alcune regole previste per gli editori – di crearne ad hoc, sia alle garanzie costituzionali previste che alle responsabilità.
Per esempio, in Italia, l’art. 57 del codice penale prevede l’obbligo (e la connessa responsabilità), per i “direttori di uno stampato periodico”, di vigilare affinchè attraverso il giornale non vengano commessi reati (dall’istigazione all’odio raziale, al reato di diffamazione).
Una responsabilità simile per il publisher è prevista anche dalla normativa stanunitense. Negli USA è stato, inoltre, espressamente escluso che tale responsabilità possa essere estesa anche agli intermediari digitali, tanto che recentemente alcuni giudici americani hanno respinto le accuse contro Twitter e altri social network, presentate dai parenti di alcune vittime di attentati terroristici di matrice islamica, di aver permesso l’apertura di account attraverso cui i fiancheggiatori dell’Isis potevano fare propaganda e reclutare nuovi adepti. Per i giudici americani, infatti, il gestore della piattaforma di social networking non poteva essere considerato responsabile dei contenuti prodotti e diffusi dagli utenti del servizio.
Si sta, comunque, facendo strada l’idea di modificare il Communication Decency Act al fine di prevedere l’obbligo per i provider, in seguito quantomeno a segnalazioni ricevute dagli utenti, di rendere inaccessibili i contenuti riferibili alla propaganda terroristica.
Abbiamo menzionato il caso Trump, ma è noto anche il caso dell’ambasciata cinese negli Usa.
Cosa accomuna e cosa differenzia i due casi?
Dopo il caso Trump, è come se i Social si fossero sentiti in “obbligo” di procedere con azioni simili verso altri account, come a voler provare che l’azione verso Trump non fosse di tipo “personale”, ma semplicemente una delle tante poste in essere contro contenuti contrari alle proprie politiche e condizioni di utilizzo.
Prima ancora dell’ambasciata cinese negli USA, dopo Trump è stata la volta del leader supremo iraniano che in un suo post definiva i vaccini anti-Covid prodotti negli Usa e nel Regno Unito “completamente inaffidabili”, mettendone in dubbio l’efficacia. Addirittura accusava i due stati di voler contaminare altre nazioni.
Il post è stato considerato contrario alle regole contro la “disinformazione sul Coronavirus” ed è stato chiesto al proprietario dell’account di eliminare il tweet per poter riottenere l’accesso al proprio account.
In realtà, chi ha accusato il social network di utilizzare due pesi e due misure avendo censurato Trump, ma lasciando che dall’account del leader iraniano partissero messaggi che evocavano la distruzione di Israele, non si è ricordato che – prima di Trump – il generale più alto in grado del Myanmar aveva subito un analogo blocco dell’account per aver fomentato all’odio.
La sospensione di Donald Trump è stata semplicemente la prima azione di questo tipo messa in atto contro un leader del mondo occidentale.
Allora sì che, se Twitter non fosse intervenuto contro Trump, sarebbe stato criticabile per aver usato due pesi e due misure. La cacciata dai social di un generale del Myanmar che incitava all’odio non provocò certamente le stesse reazioni del ban di Trump.
È in questo contesto che va inserita anche la cancellazione del post dell’ambasciata cinese negli Usa nel quale si leggeva che «Grazie alla Cina, le donne uigure non sono più macchine per fare bambini» quando era più o meno noto che le stesse donne avessero subito pratiche di sterilizzazione o contraccettive imposte per frenare la crescita della popolazione.
Secondo Twitter, il post era da considerarsi in violazione delle politiche del Social contro la “disumanizzazione”.
Siamo partiti dall’America per tornare a casa. In Italia è noto il caso della censura della pagina Facebook de “Il Primato Nazionale”. La nostra Costituzione all’Articolo 21, secondo comma, recita “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.” In Italia esiste una normativa che ha ad oggetto specificatamente la disciplina della censura online? Cosa può dirci del caso de “Il Primato Nazionale”?
L’articolo 21 della costituzione dopo il riconoscimento del diritto alla libertà di pensiero attraverso qualsiasi mezzo (in cui ad oggi è pacifico far rientrare anche internet), si sofferma poi a disciplinare nel dettaglio solo il mezzo della stampa, l’unico mass media al quale, in ragione del periodo storico in cui è stata scritta la Costituzione, era possibile riferirsi esplicitamente.
Per lungo tempo, in Italia, la materialità dello scritto è stato considerato elemento decisivo per stabilire l’oggetto della tutela della libertà di stampa.
Nel tempo, la giurisprudenza ha riconosciuto l’applicabilità della normativa citata anche alle testate periodiche telematiche.
Sempre la giurisprudenza ha, invece, escluso che la normativa per la stampa (cartacea o telematica) possa applicarsi ad altri mezzi di manifestazione del pensiero quali forum online di discussione, newsletter, blog o chat.
Quello che fa la differenza sull’applicabilità dell’art. 21 della Costituzione ad un mezzo di manifestazione del pensiero, è se tale mezzo (per esempio la pagina Facebook di una testata) rientri o meno nella nozione di “prodotto editoriale”.